“Non riesci a non pensarci, quando ti muore qualcuno accanto credi che la prossima volta toccherà a te”. Alessandro Bondi, skipper di 56 anni, ha vissuto il Covid, ci ha combattuto, ha lottato, ne e’ uscito “malconcio”, come lui stesso confessa, ma ce l’ha fatta, ha vinto. Non esulta, però, “per rispetto delle migliaia di persone che non ce l’hanno fatta” come il suo amico, Montomoli, un ragazzo di 65 anni che se n’è andato proprio mentre lui era ricoverato in terapia intensiva. Non ha il mantello, Ale, non veste una calzamaglia blu con una esse sul petto, ma si comporta come se l’avesse. Ha forza da vendere, determinazione, combattività e voglia di non arrendersi. Ma non gli basta. Getta uno sguardo oltre la siepe e lancia un monito agli altri, tutti gli altri, non solo parenti e amici: “Non posso credere che c’è chi non crede all’esistenza del virus, e’ una follia. Bisogna fare attenzione”. La sua storia e’ durata 78 giorni, di cui ben 60 in isolamento. “E’ veramente dura quando sei solo con te stesso – ammette – la testa ha viaggiato. Per assurdo i 12 giorni in cui sono stato intubato sono stati i meno terribili; dormivo, ero sedato, ma sognavo, vivevo una vita parallela, ricevevo visite quasi tangibili, o almeno pensavo lo fossero, perché in realtà non erano vere, erano frutto della mia immaginazione, della mia mente. Rischiavo la vita ma non lo sapevo. Poi il peggio e’ arrivato quando mi hanno passato al reparto Covid di Siena: da quel momento ho iniziato a respirare male. Avevo tanto dolore ai polmoni, circoscritto alla parte destra. Ho subito 12 broncoscopie, mi hanno applicato drenaggi ai polmoni, poi nei casi estremi il “CPAP”, un casco con aria mista ad ossigeno, ma quando lo toglievo ricominciava tutto, il dolore e la difficoltà a respirare. Senza morfina non era possibile resistere. Alla fine i dottori hanno scoperto che il virus aveva introdotto un batterio che si era mangiato letteralmente un terzo del mio polmone, era ridotto in niente. Per colpa del Covid i miei alveoli erano tutti esplosi. Un caso più unico che raro, tanto che ora stanno studiando il mio caso analizzando la parte di polmone asportata”. Alessandro ha subito due operazioni: la prima il 27 aprile, dopo un mese circa dal ricovero, avvenuto il 24 marzo. Poi la seconda, l’11 maggio, a due settimane di distanza, “per colpa di una recidiva che si era creata, per raschiare ancora il polmone e per fermare l’emorragia dovuta all’eparina”, afferma. Prima del ricovero era passato attraverso un frullatore di tentativi farmacologici: “Mi era stato somministrato un anti reumatoide, poi il cortisone, poi il farmaco anti AIDS… Mi avevano fatto davvero di tutto, ma paradossalmente ero risultato reattivo solo all’eparina, che mi ha costretto alla seconda operazione”. Una esperienza che lo ha provato, nella testa e nel fisico: “Al 60esimo giorno, poco prima di essere dimesso, pesavo 28 kg meno del mio peso forma, non avevo muscolatura, non camminavo. Mi hanno trasferito al reparto di fisiopatologia respiratoria, una sorta di isolamento più blando, e stavo meglio. Ma ho dovuto lavorare su me stesso per 18 giorni, con una riabilitazione intensiva, dove ho iniziato a respirare in maniera diversa e a mettermi in piedi, comminando e tornando a fare una rampa di scale”. Ma il ricovero e’ la parte finale della malattia, perché Ale ha rischiato veramente grosso nelle prime tre ore della sua emergenza: “Mi hanno portato via il 24 marzo alle 12, e alle 15 sono entrato in crisi respiratoria. Devo la vita ai medici e paramedici che erano con me in quelle tre ore. Loro mi hanno tenuto in vita”. Una vita di lotte, questa e’ solo l’ultima delle sue battaglie: Alessandro Bondi il 2 novembre del 2012 era stato colpito da un ictus che però non lo ha fermato, ma solo frenato: “Mi ha bloccato la parte destra del corpo. Ma grazie al lavoro dei fisioterapisti dell’Agazzi di Arezzo sono riuscito a venirne fuori, sono stati degli angeli che mi hanno permesso di vivere una vita piena, mi hanno anche consentito di parlare di nuovo e di muovermi bene. Mi hanno sbloccato da una brutta paralisi”. Ma molto ha influito la sua vera passione: la vela, come ammette lui stesso: “La barca e’ la mia lucida follia, che mi ha riportato a veleggiare già una settimana fa, a tre mesi e mezzo dal Covid. Anche dopo l’ictus era un pensiero ricorrente tornare in barca, navigare tra le onde per comandarla io, anche solo con la mano sinistra, con cui faccio tutto. Salire sulla barca mi e’ servito a cancellare il passato e mi rendo conto della fortuna immensa di avere una passione bella e naturale come la barca a vela, che trasmette un senso di libertà che non ha paragoni, una semplice 12 metri, 39 piedi di adrenalina e gioia allo stato puro”. La stessa adrenalina e gioia di vivere che inspiegabilmente Ale riesce a trasmettere a chiunque riesca a parlargli.