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Capaci, quando Giovanni e Francesca tesero la trappola

Inizia a far caldo. Una calura semi estiva che ci riporta agli anni passati, quando non c’era il Coronavirus e la quarantena era una parola lontana, da telegiornale. L’incedere della bella stagione ci trascina sul selciato dei ricordi, dove i ciottoli sono smussati dal mare ed arsi dal sole. Ma qualche volta, e non è rado incorrervi, ci si lacera su qualche pietra aguzza che spunta dal terreno della storia. E Capaci… beh, Capaci è una di queste. La più appuntita e tagliente. Una strage annunciata, si dice ancora a 28 anni di distanza, come se non si fosse potuta evitare. Giovanni Falcone perse la vita insieme alla scorta e alla moglie, Francesca Morvillo: ancora oggi pochi sanno che lei è rimasta l’unica magistrato donna a venire assassinata nella storia d’Italia. Ma tutti ricordano il marito, per la maggiore mediaticita’ della figura, forse. O per questa sua strenua e disperata lotta ad ogni forma di organizzazione criminale, sopra tutti la mafia. Eppure la dottoressa Morvillo palesava altrettanta sicurezza nel difendere il diritto dei più deboli, e neanche si può immaginare il peso del suo carisma nelle scelte non solo di Falcone, ma dell’intero pool antimafia di Palermo. Francesca Morvillo ricopriva il ruolo di giudice del Tribunale di Agrigento e dopo di sostituto procuratore sempre a Palermo presso il Tribunale per i minorenni. Ha condiviso con il suo compagno le difficoltà, le titubanze, le apparenti sconfitte e le paure, soprattutto quelle, prima dell’abbraccio che li ha portati via sul quel pezzo di autostrada saltato in aria sotto qualche quintale di esplosivo e tonnellate, tante, troppe, di consapevole ingiustizia. Ha sostenuto l’ideale della giustizia, da sola e insieme al suo Giovanni, facendo la stessa strada all’alba, e di ritorno al tramonto, fino all’ultimo fatale appuntamento. Una scelta consapevole, la loro. Nonostante tutto. Nonostante l’angoscia, le minacce, la certezza di andare incontro ad un destino che non contemplava la vecchiaia, ma che celava un’ombra nera dietro ad ogni angolo di strada. Ma non si sono mai fermati. Anzi. Quando la via si faceva più dura, si prendevano per mano e correvano più velocemente incontro al pericolo. O almeno, così li immagino, novelli eroi di un ideale confusamente dissolto nelle pagine della storia recente. Hanno rincorso il diritto alla giustizia per una vita, ergendosi a simbolo della lotta al crimine senza divenirne martiri, ma sconfiggendo il nemico dopo la morte, con la loro morte. Questo ricordo, ogni anno, alla fine di maggio: penso e ripenso a quello che accadde quasi trent’anni fa, al senso di impotenza che provai nelle settimane a seguire, e all’incredibile cambiamento che, invece, hanno portato Giovanni e Francesca nella coscienza della gente. Hanno voltato le spalle ai sicari tendendo loro una trappola: li hanno fatti cadere nello stesso fossato scavato dal loro attentato ed esposti al ridicolo della storia, che ancor oggi li sbeffeggia come si fa con il malandrino scoperto a rubare una gallina. Piccolo insignificante ladruncolo coperto di pece e piume, condotto alla gogna del popolo che di lui non ha timore, non più. Perché due giudici hanno battuto i pugni sul tavolo della giustizia e hanno sentenziato la sua condanna, oltre la vita, in un castigo esemplare nel persistere del tempo.

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